di Renato Voltolin Introduzione Come è noto, l’introduzione del concetto di “danno psicologico” in ambito giuridico e giudiziario, è conseguenza del fatto che la giurisprudenza ha riconosciuto che un atto lesivo, oltre che produrre un danno patrimoniale o provocare una sofferenza psicologica (danno morale), può produrre anche un danno durevole alla salute fisico-psichica (danno biologico) e che tale danno è risarcibile indipendentemente dalla sua incidenza patrimoniale. Ha inoltre ammesso che il danno psicologico possa verificarsi anche in assenza di un danno organico, come conseguenza cioè di una violenza puramente psicologica. La componente psichica di tale danno alla salute, è stata definita, appunto, come “danno psicologico”, che può essere considerato, in rapporto al danno biologico, come una sorta di sottospecie o elemento complementare. Si tratta indubbiamente di un segno di civiltà e di progresso sociale: con il riconoscimento del danno psicologico, la tutela della salute dell’individuo si realizza veramente come tutela “psico-fisica”, così come si ritiene sia nello spirito della norma giuridica. Il riconoscimento riguarda, in concreto, il diritto alla tutela della personalità con riferimento a quelle che sono le sue esigenze essenziali di sviluppo, espressione e realizzazione di sé, sentite da ogni essere umano come irrinunciabili. Sono esigenze che la scienza psicologica più attuale ritiene vengano soddisfatte, oltre che attraverso il libero esercizio delle proprie capacità creative e professionali, anche e soprattutto nella realizzazione di una serena vita di relazione ad ogni livello (individuale, familiare, sociale). Qualsiasi soggetto che impedisca o faccia venire meno la possibilità di tali realizzazioni, anche qualora non si tratti di un atto o un comportamento propriamente illeciti, può produrre una lesione alla integrità e un pregiudizio alla salute psichica, e come tale può essere condannato al risarcimento.
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Tale premessa era necessaria per definire la natura e lo spirito del presente lavoro, che va considerato come un contributo alla definizione e alla trattazione del complicato argomento in questione. Tuttavia esso ha una specificità tale da costituire un argomento di riflessione e di disamina che può essere “estratto” dall’insieme della materia e considerato in qualche modo a sé stante. Tratterò infatti, di un particolare tipo di danno psicologico: quello imputabile all’attività giornalistica e che si verifica quando quest’ultima travalica il mero diritto di cronaca, per andare ad intrudere illegittimamente nella sfera della privacy e dell’intimità del soggetto. In altri termini, intendo dimostrare che la violazione della intimità e della privacy di un soggetto, qualora superi quel livello di soglia entro il quale l’intrusione è in qualche modo accettabile come un “inevitabile sconfinamento nella sfera privata“, possa provocare un danno psicologico che può essere tale da produrre gravi turbamenti della vita sia individuale che di relazione con esiti permanenti spesso rilevanti (stravolgimenti della vita familiare) e, al limite, financo nefasti . Distinguerò, rispetto alla attività giornalistica due tipi di danno psicologico, quello relativo alla violazione in sé e quello conseguente la utilizzazione, la diffusione di quanto è stato sottratto dalla sfera della privacy, dato che la violazione perpetrata dal giornalista non è mai fine a se stessa, ma ha lo scopo di impossessarsi o di ottenere del materiale informativo, “l’informazione”, da pubblicare. A dire il vero, non si tratta sempre, (specie riguardo al primo danno), di una sofferenza così grave e durevole da provocare un “danno psicologico”; per cui occorre subito precisare che, quando il danno non ha connotazioni di eccessiva gravità, magari per la rinuncia da parte del giornalista alla diffusione della informazione, la sofferenza comunque patita dal soggetto può rientrare in quello che viene definito dalla legge come “danno morale”, e quindi rientrare nelle situazioni già definite dal diritto in termini di offesa, calunnia, ingiuria, diffamazione ecc. Qualora però la violenza sia più grave e, soprattutto, quando provochi un turbamento della vita di relazione del soggetto, coinvolgendo quindi anche la vita di terzi, in questo caso il danno psicologico diventa l’esito più frequente e, per la sua natura durevole, può essere considerato un vero e proprio danno alla salute e come tale risarcibile. Questo significa che il danno da mera violazione non deve essere sottovalutato, perché un soggetto che venga, ad esempio, ossessivamente seguito o interrogato su fatti e argomenti intimi che lo riguardano dolorosamente, può portare all’esasperazione, soprattutto se si innesta in una personalità dall’equilibrio precario. Intendo anche dimostrare che si può ravvisare nel comportamento di certi giornalisti, una sorta di “sindrome del reporter”, a seguito della quale il comportamento intrusivo del giornalista si configura come un vero e proprio disturbo della personalità. Tale sindrome dovrebbe essere evidenziata quando risulta il vero motivo di un certo accanimento giornalistico e costituire un elemento che permette di confutare un pretestuoso diritto di informazione. Tale comportamento giornalistico irresponsabile, dovrebbe comportare un adeguato intervento degli organi di vigilanza, cosi come fa qualsiasi Ordine professionale per le indegnità e le violazioni del codice deontologico. Tratto da “Quaderno n.2 di Psicologia Giuridica”. Pubblicazione dello Studio di Psicologia Forense e Assistenza Giudiziaria di Milano. AUT. TRIB. MILANO N. 74 DEL 27/1/1999.